Il percorso artistico di Riccardo Nannini è legato indissolubilmente a quelle che egli stesso dichiara essere “tre dimensioni”. Quella familiare piccolo-borghese, che vede lui, i suoi genitori e suo fratello riuniti al piccolo tavolo di cucina: si parla poco e – quando si parla – gli argomenti riguardano la quotidianità.
Appena adiacente a quel tavolo troviamo la seconda dimensione: la grande fattorie accanto alla casa, dove vivevano una trentina di contadini che Nannini frequentava il più spesso possibile. Mangiava con loro al grande tavolo nell’aia, insieme ai vecchi e ai giovani, senza usare piatti ma attingendo dal grande pentolone al centro.I contadini non avevano ovviamente la televisione nè la radio, e i momenti di maltempo e di pausa dal lavoro si riducevano alla vera essenza del riposo:sedere sotto la loggia, osservando la pioggia e la terra.
Ma senz’altro più stimolante per il giovane Riccardo era la terza dimensione: l’altra casa confinante era in realtà una grande villa di proprietà di una famiglia italo-americana. I due figli divennero compagni di gioco di Nannini, il quale fu subito il benvenuto.Gli anni della sua infanzia e adolescenza quindi passarono così, a metà tra i cipressi e gli olivi di una cultura contadina che il Paese stava tentando di dimenticare e le sculture di Moore nei saloni di una grande villa, dove la cena veniva servita in guanti bianchi su una tovaglia ricamata, e consumata con posate d’argento.
Questa peculiare formazione umana si è riflessa nella sua vita e nel suo lavoro, che lo ha portato da Carrara, dove entra in contatto con la dura vita dei cavatori di marmo sotto la guida di Sam Gherardini, fino al raffinato ambiente artistico della New York della fine degli anni settanta.